“Tra le tendenze più avanzate del teatro contemporaneo c’è indubbiamente la “domanda critica” sul senso da dare alla produzione di spettacolo, e anche sulla linea di confine tra attore e spettatore e fra teatro e improvvisazione.

Attorno a un grande tavolo di legno che occupa l’intera sala teatrale siedono ordinatamente allineati attori e spettatori in una specie di ideale serata domestica dove si parla con le parole degli altri e si recita un copione insolito. Lo spettacolo diventa in tal modo una collana di fatterelli, mozziconi di storie, invettive e soliloqui, divagazioni e riflessioni che saltano sulla scena come giocattoli a molla racchiusi nella scatola delle sorprese. Joyce, Brecht, Heine, Sartre, i grandi tragici, lo spogliarello e il gioco di prestigio, la chiacchiera querula del finto spettatore critico, il battibecco tra attori e personaggi, l’addestramento dell’attore in una Babele espressiva senza rete costruiscono l’atmosfera di una teatralità giocata sull’azzardo dell’improvvisazione e sul calcolo della premeditazione accuratamente celata dietro l’effetto-happening.

Quando incomincia lo spettacolo ha la tonalità ibrida della mestizia e della spensieratezza, in cui la materia teatrale si fa aerea o pesante, densa o sfilacciata, fino a coinvolgere lo spettatore nella vita concreta dell’attore. E’ il momento più “puro” dello spettacolo, quando Giorgio Gennari e Giancarlo Ilari, semisoffocati in pesanti costumi di stoffa e corda, devono imparare a ripetere le acrobazie linguistiche di Finnegans Wake di Joyce, guidati da un direttore di scena annoiato e saccente. E’ la parte più teatrale di questo lavoro affascinante e elegante, dedicato all’attore e al suo modo di farsi spettacolo senza intermediari e senza limiti, dove le spericolatezze della lingua diventano un incubo e una consolazione. Una ricerca espressiva che punta alla performance dell’attore come arte sovrana della scena.”

Maurizio Grande, 1989