Architettura e Teatro

Architettura & Teatro, un seminario triennale svoltosi a Reggio Emilia nel 2004, 05, 06, successivamente sviluppato in un libro, in cui si sono confrontati progetto architettonico, sapere ingegneristico e tecnico, linguaggi dello spettacolo dal vivo, fruizione, realizzazione di progetti e di nuovi spettacoli, attenzione al ruolo del pubblico, messa in discussione delle modalità che in generale caratterizzano la realizzazione di nuovi edifici teatrali. Pensiero del teatro e sul teatro.

Quello che segue è il testo introduttivo del libro pubblicato da Il Saggiatore nel 2007.

1. Perché questo libro

Il nuovo teatro si dimostrò
un mostro disgustoso di cemento
e di solido disprezzo per l’arte teatrale.
Ingmar Bergman, Lanterna Magica

Questo volume nasce come momento di ulteriore riflessione e di documentazione delle tre edizioni del seminario internazionale su Architettura e Teatro, tenutesi a Reggio Emilia nel 2004, 2005 e 2006.
Perché Reggio Emilia? Perché storicamente è una città di teatro. In Emilia è nato il teatro all’italiana, che si è poi diffuso in tutta Europa. Da Reggio, nel Seicento, è partito uno dei maggiori architetti e scenografi barocchi, Gaspare Vigarani, chiamato a Parigi da Luigi XIV a edificare il suo teatro di corte. Da sempre sensibili al rapporto fra città, architettura e spazi teatrali, le istituzioni teatrali reggiane hanno posto una particolare cura nel continuo lavoro di ristrutturazione e adeguamento dei propri spazi teatrali storici: oggi Reggio Emilia vanta uno dei sistemi teatrali più particolari in Europa con la presenza integrata di tre teatri – Teatro Valli, Teatro Ariosto e Cavallerizza – che definiscono il perimetro di una delle sue piazze principali, cui si aggiunge un quarto spazio, la Fonderia: un ex capannone industriale trasformato in spazio per la danza.

Architettura e Teatro è nato come seminario internazionale sulle relazioni fra discipline del progetto e arti sceniche; limitarlo alla sola indagine della casistica italiana avrebbe offerto un panorama assai critico e spesso deprimente. Il seminario partiva da un intento costruttivo: invitare a una comune discussione professionisti di teatro, critici, storici dell’architettura e dello spettacolo, progettisti, ovvero le diverse figure protagoniste dell’ambito, oggi sempre più problematico, relativo alla progettazione e realizzazione di nuovi edifici teatrali.
La nostra epoca è caratterizzata dalla costruzione di nuovi edifici per la musica, il teatro, la danza. Spesso questi edifici nascono, fin dalla loro ideazione, carichi di complesse valenze simboliche e di aspettative perché rappresentano il modo in cui una collettività definisce il proprio valore proiettandosi nel futuro. Al tempo stesso, essi soffrono di una frattura tra il mondo dell’architettura e quello delle arti sceniche, mai così lontani, addirittura a volte antagonisti, come negli ultimi decenni.
Il progetto dell’edificio per le arti sceniche indica un tempo e un luogo dell’esperienza in cui sono uniti e si confrontano diversi linguaggi espressivi, diverse drammaturgie – spaziali, narrative, della comunicazione -, diverse strumentazioni e necessità tecniche, con la ricerca estetica e espressiva di una specifica comunità.
L’unicità di questo processo mal si concilia con la separazione specialistica delle competenze professionali. La particolarità e complessità del progetto di architettura per il teatro non sopporta fratture e disequilibri; non può tollerare una scissione tra la forma, la funzione e la tecnologia. Il risultato è una obiettiva difficoltà di relazione tra i protagonisti, quando non una vera e propria frattura. Pensando agli edifici e alle sale di recente costruzione ci si trova quasi sempre di fronte a una generale perdita del rapporto ottimale tra i volumi della sale e quelli del palcoscenico. Da questa difficoltà, che sembra essere il punto centrale della difficile relazione tra il mondo del progetto architettonico e specificamente tecnico e quello delle arti sceniche, conseguono miriadi di assurdità. Per esemplificare: voci e strumenti scarsamente udibili o, al contrario, troppo sonori, palcoscenici difficilmente utilizzabili a causa di limitazioni strutturali – il muro nel posto sbagliato è la variabile più frequente – flessibilità ridotta nell’uso della scena, camerini collocati a distanze assurde, sale non oscurabili eccetera.
Il riflesso di questa scarsa permeabilità tra il mondo dell’architettura e quello delle arti sceniche è percepibile spesso nell’insoddisfazione sia di chi progetta, sia di chi nel teatro lavora, sia negli spettatori: in questo contesto l’insoddisfazione genera facilmente frustrazione e mortificazione delle capacità artistiche e creative.
Il seminario Architettura e Teatro ha volutamente accostato esperienze e saperi molto diversi tra di loro, per provare a raggiungere una completezza del raggio di discussione o quantomeno per renderne tangibile la complessità. Si è cercato quindi di accogliere le testimonianze di quelle figure ascrivibili alla voce “teatro”, a tutti i generi dello spettacolo dal vivo, a coloro che operano dietro le quinte per la produzione e la realizzazione delle rappresentazioni, a chi deve gestire il teatro in quanto istituzione e ai progettisti dei luoghi deputati allo spettacolo, nel tentativo di ripristinare un dialogo carico di interrogativi nel quale non prevalga una figura sull’altra. La finalità ultima è quella di rendere conto di un luogo – il teatro – in necessaria, continua trasformazione. Trasformazione che riguarda tanto i linguaggi performativi che le attese del pubblico: il progetto dell’edificio teatrale necessita, oggi più che mai, del concorso di moltissimi protagonisti in grado di farlo vivere.

Seminario Architettura e Teatro 2004, interno Teatro Cavallerizza
Seminario Architettura e Teatro 2004, Mario Botta e Peter Stein
Seminario Architettura e Teatro 2004, Francesco Giambrone, Romeo Castellucci

2. Salvaguardare l’immaginario

Se l’immaginazione non è tenuta viva
non ci può essere alcuna base per
il giudizio etico o la necessità politica.
James Hillman, Politica della bellezza

Nel corso dei secoli l’edificio teatrale è stato protagonista di continue trasformazioni. Trasformazioni di ogni genere, intensificate enormemente negli ultimi tre secoli, in particolare lungo l’intero Novecento, che sono il riflesso delle mutazioni sociali e della creatività degli artisti come testimoniano la varietà dei generi, la pluralità dei linguaggi e le forme della scena in continua evoluzione. Per secoli, la trasformazione degli spazi teatrali e l’adeguamento delle strutture architettoniche interne ed esterne dei teatri, sono stati garantiti da una fertile corrispondenza di pensiero tra gli artisti e gli architetti, entrambe figure artigianali legate da un comune senso del fare. I teatri del passato testimoniano quasi sempre una positiva prossimità di pensiero. Idealizzando, è come se l’architetto si sia sempre dimostrato pronto e capace di restituire forma e dignità al “provvisorio” dell’arte scenica.

Dalla metà del Seicento fino a tutto il secolo successivo, la diffusione del teatro all’italiana in tutta Europa è spesso opera dei maggiori architetti del tempo come Fontana, Juvarra o Vanvitelli ma il punto più alto, momento di vera osmosi tra linguaggi, conoscenze e saperi, è probabilmente l’esperienza, nell’Italia del Settecento, dell’architetto-scenografo, figura unica in cui converge la duplice competenza della realizzazione dell’edificio teatrale e dell’apparato scenotecnico. Numerose sono le figure che lavorano alla sintesi tra struttura architettonica, organizzazione funzionale e ottimizzazione delle condizioni visive e acustiche attraverso la studio della pianta ottimale del teatro, della curvatura del soffitto, dei materiali e dell’illuminazione: Gaspare Vigarani, Jacopo Torelli, le famiglie dei Bibiena e dei Mauro mettono a punto e tramandano un sapere, un mestiere, che fonde conoscenze costruttive, considerazioni estetiche e principi legati alla matematica, la geometria e la fisica. Questa forma di sapienza “sperimentale”, viene sì rivista e smontata successivamente dalla critica illuminista (alla luce di quel pensiero sistematizzato che si rifaceva ai trattati, ai principi della classicità fissati da Vitruvio, Alberti e Palladio), ma resiste fino a tutto l’Ottocento adattandosi e influenzando al tempo stesso la nascita di nuovi generi teatrali. E’ solo di recente, con la diaspora dei saperi specialistici, che il “corpo” teatrale si ammala.
Questa perdita di corrispondenza tra saperi – saperi che non riguardano solamente la sfera della “tecnica”, ma sono determinanti ai fini di qualsiasi progettualità espressiva – questa perdita di corrispondenza sembra procedere in modo del tutto parallelo a una più generale svalutazione della forza dell’immaginario nelle società occidentali: l’epoca in cui prevale il “letterale” (n1) come forma di interpretazione e trasmissione della realtà, pare abbandonare quella forza generatrice dell’immaginario cui la nostra cultura ha attribuito, fino dalle sue origini, un ruolo propulsivo.
Il teatro greco colloca gli accadimenti tragici in luoghi non visibili, fuori dalla scena, suscitando così al massimo le potenzialità immaginative del cittadino spettatore. L’accecamento di Edipo, il suicidio di Antigone, l’uccisione dei figli da parte di Medea, accadono fuori scena. Quello che “vede” lo spettatore è la conseguenza del gesto e dell’intervento tragico, con tutto il suo strascico emotivo. In mezzo c’è lo spazio dell’emozione suscitata dall’aver lasciato lo spettatore, ovvero la comunità, da sola con la propria risonanza immaginativa, con il proprio stupore e con la propria immaginazione psichica, politica, etica. Senza immaginario non c’è bellezza, né stupore e neppure anima: l’immaginazione è la forza psichica che rende visibile ciò che non esiste ancora. In sintesi, è nell’esperienza immaginativa che l’assenza può trasformarsi in presenza.
Tornando al nostro tema, scisse le figure e le competenze, i termini della questione non mutano: Architettura e Teatro continuano ad avere implicite finalità comuni, sia l’una che l’altro inventano il proprio pubblico, lo “istituiscono” come soggetto non ancora dato.
Sia l’architetto che il regista, compositore, drammaturgo, coreografo indirizzano il pensiero, creano le condizioni in cui realizzano una comunicazione e forme di vita nuove, non date, il modo in cui può esistere e svilupparsi l’immaginario. Ambedue progettano e anticipano qualcosa che ancora non c’è, comportamenti e attitudini da inventare: teatro e architettura suscitano il nuovo sotto forma di parole, spazi, suoni, gesti, pensieri. C’è quindi, nel legame indissolubile tra architettura e teatro, una visione ontologica che va salvaguardata e valorizzata in ogni sua potenzialità.

Peter Brook, Mahabarata, Mercat de les Flors, Barcellona, 1985
Maurizio Balò, Elettra, Teatro Caio Melisso, Spoleto 2003
Graham Vick, Fidelio, Birmingham 2002

3. Le forme teatrali e il ruolo dell’architetto

Un teatro non è mai per sempre. Un edificio teatrale esprime le necessità di una particolare pratica, di un pensiero che nasce e si formalizza in un determinato periodo storico. Verso la metà del Settecento, le decine di teatri attivi a Venezia – città-teatro per eccellenza, anche grazie alla sua particolare architettura – erano aperti durante tutta la giornata e ospitavano un mondo polimorfo, persone di diversa estrazione che si ritrovavano per parlare d’affari e di cultura, per mangiare e per giocare, per intrecciare rapporti sociali e relazioni amorose. Infine, in determinati orari, non solo serali, si apriva il sipario e quella multiforme società diventava il pubblico. Più o meno lo stesso sappiamo delle locande inglesi in cui è nato e si è affermato il teatro elisabettiano. Edifici diversissimi in cui si svolgevano forme simili di vita e che hanno prodotto altrettanto differenti modalità di teatro e di partecipazione.

La vita di una sala teatrale è una vita a suo modo fragile, che si cristallizza solamente quando una data forma o linguaggio si attesta nel tempo. E’ il caso dei teatri d’opera dell’Ottocento concepiti sullo schema della tradizione barocca, rivisto alla luce di una maggiore razionalizzazione degli elementi di distribuzione e soprattutto degli apparati tecnici. Il progetto del Piermarini per il Teatro alla Scala di Milano costituisce senza dubbio il paradigma di un tipo di sala, quello dedicato alla lirica, in cui la più ampia capienza possibile, con un vantaggio anche economico, veniva garantita da ordini di palchi sovrapposti e da un loggione superiore.
La situazione attuale presenta, in Italia, la tragedia di tanti teatri storici che sono stati mal ristrutturati – in particolare tra gli anni Sessanta e Ottanta – dove tecnici incompetenti, sordità o ingerenze politiche, marginalità degli artisti o loro disorientamento e altri fattori variabili hanno portato a veri e propri disastri; nei casi migliori – purtroppo una minoranza – a interventi filologicamente corretti, più spesso a degli ibridi che non favoriscono nessuna particolare forma di spettacolo dal vivo. Quasi sempre il consolidamento strutturale e la “messa a norma”, con il relativo adeguamento degli impianti, ha portato a una modificazione di senso dell’architettura originaria con un eccesso di materie e materiali, spesso usati in maniera impropria e banalmente di dubbio gusto, nel disprezzo per le necessità minime di funzionamento dell’ edificio. Per chi nel teatro lavora, l’impossibilità di un normale carico e scarico degli elementi scenotecnici, graticci impraticabili o scarsamente utilizzabili, palcoscenici non sbotolabili, cattiva o limitante accoglienza del pubblico, acustica e visibilità insufficienti, cabine di regia mal collocate e/o sottodotate, non rappresentano certo un dettaglio.
La casistica, soprattutto in Italia, è interminabile. Il prezzo lo hanno pagato in tanti e un esempio che vale per tutti è quello rappresentato dal Teatro dell’Arte, all’interno del Palazzo della Triennale di Milano progettata da Muzio negli anni Trenta, violato da un architetto e da giunte comunali irresponsabili tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Purtroppo gli stessi problemi si ritrovano, fatto apparentemente incomprensibile, anche nei teatri di nuova progettazione, realizzati dagli anni Settanta in avanti.
Per rimanere alla situazione italiana, edifici come la nuova sede del Piccolo Teatro di Milano, il Teatro Carlo Felice di Genova, il nuovo Auditorium di Roma, il Teatro delle Muse di Ancona, il nuovo teatro di Bolzano, il Teatro degli Arcimboldi di Milano, il Teatro Lirico di Cagliari, eccetera, presentano quasi tutta la gamma di problematiche fin qui segnalate – di cui la più frequente è il boccascena troppo a ridosso del muro di fondo del palcoscenico – con l’aggiunta di altri sintomi che molte architetture di oggi presentano, come l’uso di tecnologie “pesanti” e in alcuni casi dominanti (il recente palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, ad esempio, ha il sottopalco bloccato da un mostro di ferro inutilizzabile), elementi distributivi illogici e eccessivamente lunghi (le distanze tra camerini e palcoscenico all’Auditorium di Roma, sono nell’ordine delle centinaia di metri, ma il record è del Carlo Felice di Genova in cui i camerini del coro erano stati originariamente pensati e quindi collocati al quattordicesimo piano, serviti peraltro da un numero inadeguato di ascensori: il risultato è stato per anni, ovviamente, il panico, quando non il vuoto di scena ), assenza di passaggi di servizio tra sala e palcoscenico, a volte difficoltà o mancanza di comunicazione tra gli spazi laterali del palcoscenico stesso, variazioni di senso che portano a nuove, illogiche forme (ad esempio il palcoscenico a pianta trapezoidale del nuovo teatro di Sassari), eccetera. E, in alcuni casi (Carlo Felice e le Muse), l’inserimento, nella sala, di architetture eterogenee, ideologiche o invasive rispetto al contesto teatrale: la platea come spazio urbano architettonico che entra nel teatro.
Pensiamo a quanti spettacoli sono stati bloccati dalla impossibilità di attivare la tecnologia di un palcoscenico, a quei teatri che hanno visto la propria sofisticata tecnologia andare in crisi al punto da dover essere chiusi, o di dover funzionare con gravi limitazioni.
Si possono attribuire tutte queste responsabilità a un’unica figura?
Tra i personaggi dominanti del panorama culturale compare con forza l’icona dell’architetto-star. Intellettuale, interprete della realtà, l’architetto è diventato, in questi ultimi decenni, una sorta di deus-ex-machina a cui affidare non solo i compiti che gli dovrebbero competere ma anche la responsabilità di suggellare, con un solo edificio stupefacente, a volte indubbiamente di qualità, ardite operazioni di marketing culturale e urbano – e questo è il caso, solo per citare gli esempi più noti, del Centre Pompideau a Parigi, del Guggenheim a Bilbao, del MART a Rovereto, del nuovo Auditorium a Roma. In Europa e in America la firma di un architetto famoso oggi può bastare a cambiare l’economia urbana di una città. Questo lo sanno bene gli amministratori di piccoli, medi e grandi centri che vogliono aumentare l’affluenza turistica cercando l’effetto “immagine” del nuovo monumento, museo, teatro, o centro culturale che sia. Alla difficile pratica della pianificazione e progettazione urbana si preferisce la città-collezione di oggetti firmati. La cultura architettonica sembra dunque spesso dimenticare quel sapere articolato, colto e utile che ha plasmato la città nei secoli per inseguire questioni di stile, di gusto e di mercato. Corollario di questa situazione è la riduzione frequente di una disciplina complessa, qual è l’architettura – che dovrebbe affrontare al contempo questioni legate, oltre che alla forma, alla funzione e alla tecnologia – alla principale dimensione linguistica. Così come la forma architettonica non deve derivare dalla sola funzione, allo stesso tempo gli aspetti legati al funzionamento, e quindi alla fisiologia e alla vitalità dell’edificio non possono essere liquidati come aspetti secondari della progettazione architettonica. Proviamo a immaginare un ospedale con il Pronto Soccorso al decimo piano: come minimo il progettista sarebbe accusato di irresponsabilità.
In Emilia-Romagna, regione considerata all’avanguardia per i suoi servizi per l’infanzia – e dove proprio il modello pedagogico reggiano continua a richiamare esperti ed è studiato in tutto il mondo – negli anni ’70 alcuni asili nido dovettero addirittura essere completamente ristrutturati, poco dopo essere stati inaugurati, perché risultati impraticabili per un lavoro educativo con i bambini. Oggi una legge (N 2) prevede testualmente che la progettazione di tali servizi si realizzi prendendo a riferimento anche il progetto pedagogico, dalle fasi iniziali della progettazione fino all’attivazione del servizio.
Ciò che dopo molti anni è stato stabilito per legge rappresenta l’evoluzione di un confronto importante, che la stessa Regione attivò, istituendo già a quel tempo Commissioni in cui progettisti, educatori e pedagogisti furono chiamati a lavorare insieme, per evitare gli errori prodotti inizialmente, certo per inesperienza, ma soprattutto per la mancanza di un dialogo tra chi aveva progettato quelle strutture e chi al loro interno doveva viverci e lavorare quotidianamente.

Gli effetti di quel confronto “orizzontale” , spesso aperto a livello locale anche ai genitori, hanno indubbiamente prodotto risultati importanti, consentendo di elaborare una cultura condivisa e più avanzata anche sul piano organizzativo ed economico.
Dobbiamo affermare che sarebbe indispensabile pensare a qualcosa di simile per gli edifici teatrali? Stabilire protocolli, chiarire quali siano i bisogni e le logiche che plasmano il lavoro delle arti sceniche, quali i vincoli funzionali e tecnici assolutamente da rispettare, quali le voci che necessitano di uno sforzo economico maggiore, come ridistribuire le risorse progettuali e economiche per produrre un edificio che esprima nella sua coerenza costitutiva la propria identità.
Il Seminario di Reggio Emilia non è stato che un primo passo, volto a fare incontrare esperienze fin qui separate, e a indagare le ragioni di tale diaspora. Il problema della relazione tra architettura e teatro va affrontato con urgenza se non vogliamo continuare a produrre danni. Dobbiamo essere inoltre politicamente consapevoli che i progetti dei teatri sono interventi significativi sia a livello di investimento di denaro pubblico, sia a livello simbolico, di identità cittadina e nazionale. Le implicazioni etiche del tema sembrano evidenti.

Walter Gropius, Totaltheater, assonometria 1927
Foreign Office Architects (Foa), Music Box, Londra, 2003
Francisco Rodriguez de Partearroyo, Teatro Real, Madrid, veduta del palcoscenico

4. Trasmissione dei saperi

Il terreno su cui poggia la discussione intorno ad Architettura e Teatro è dunque un terreno di rotture e frammentazioni. La trasmissione dei saperi, che garantisce una qualche continuità di lavoro nei diversi campi dell’espressione teatrale e musicale, mostra, rispetto all’ambito architettonico, una sostanziale crisi. Crisi che si riflette inevitabilmente in una perdita di consapevolezza tecnica, anche da parte di chi è chiamato a gestire quotidianamente l’organizzazione di un palcoscenico. È evidente come un discorso mal impostato comporti delle ricadute conseguenti.

Vale la pena di ricordare, in questo contesto, che per dare il via libera all’apparato tecnico dell’Opera di Vienna (1869) , il palcoscenico fu sottoposto al test ritenuto più probante: realizzare, entro tempi accettabili, i cambi di scena previsti da Wagner per L’Oro del Reno. Solamente superato questo passaggio, il palcoscenico e la tecnologia che lo modellava furono completati: quella impostazione tecnica è rimasta sostanzialmente la stessa da oltre un secolo. Nello stesso teatro, furono necessarie un numero estenuante di prove per decidere il livello della buca dell’orchestra; i documenti dimostrano che questo divenne addirittura argomento di discussione nella società e sulla stampa viennese dell’epoca.
Per avvicinarci ai nostri giorni, dagli esempi contenuti in questo volume risulta evidente che un teatro ben realizzato è un teatro che, nella sua progettazione, è passato attraverso le interrogazioni su “quale” tipo di spettacolo rappresentarvi e sul “come”.
L’assenza di questi interrogativi, perduti nella debolezza del rapporto tra committenti, architetti e artisti, porta inevitabilmente a una catena di problemi conseguenti e a una inevitabile frattura nella trasmissione dei saperi. Tanto più delicata in quanto si tratta di saperi artigianali, che dispongono di scarsissima letteratura : saperi tecnici, produttivi, progettuali intrecciati alle logiche economico-gestionali. Diversi corollari di questo assunto aiutano a spiegare la delicatezza del passaggio.
Troppi teatri e sale da concerto di recente costruzione, con la loro tecnologia pesante e inadeguata, con una scarsa flessibilità d’uso, escludono dall’orizzonte delle proprie possibilità realizzative una gran parte della produzione musicale presente, futura ma anche del passato più vicino. Tanto teatro e musica del Novecento non hanno cittadinanza in questi edifici. Al contrario, uno spazio moderno, necessariamente variabile, aprirebbe la strada a nuove possibilità progettuali, drammaturgiche e produttive.
Per arrivare a questo, sarebbe indispensabile una diversa consapevolezza nella progettazione delle caratteristiche tecniche di un teatro. La tecnologia teatrale non è mai neutra, è al contrario una funzione variabile. E muta principalmente per ragioni drammaturgiche, così come è avvenuto per le forme architettoniche dei teatri del passato.
Quanti teatri, di fronte al campo aperto di una nuova progettazione tecnica e architettonica, si pongono il problema della realizzabilità dell’opera contemporanea, musicale e/o teatrale, quando spesso la nuova opera musicale è, tutta o in parte, elettroacustica?
La progettazione di un nuovo teatro o sala da concerti deve assumersi l’onere di scandagliare tutte le problematiche relative alle soluzioni tecnologiche. Il tema della meccanizzazione non è mai acritico, deve contenere la consapevolezza di un sapere tecnico fondato, in origine, sulla manualità. Consapevolezza di una secolare trasmissione artigianale che è dannoso dimenticare, con il rischio di ritrovarsi con una tecnologia acefala, immemore delle sue pratiche più elementari, di difficile e pesante gestione.
Si sta correndo il rischio di realizzare, inconsapevolmente, il più grande dei paradossi, in cui tanti palcoscenici moderni già vivono: a un aumento indiscriminato di tecnologie corrisponde un aumento e non una diminuzione della complessità del fare, con una ricaduta negativa sulla produttività e sugli aspetti gestionali. A partire dalla qualità dei progetti e del lavoro.

Seminario Architettura e Teatro 2005: Antonio Calbi, Silvia Milesi, Vittorio Gregotti, Daniele Abbado, Marco De Michelis, Yvonne Farrell, Shelly Mc Namara - Grafton Architects, Isabel Da Silva, Antonio Latella
Seminario Architettura e Teatro 2004, Luciano Damiani
Seminario Architettura e Teatro 2004, Santiago Calatrava

5. Dal seminario al libro – il teatro come tempio laico

Il modo in cui immaginiamo le nostre città,
il modo in cui progettiamo i loro scopi,
i loro valori, e aumentiamo la loro bellezza,
definisce il sé di ciascuna persona di quella città,
perché la città è l’esibizione tangibile dell’anima comunitaria.
James Hillman, Politica della bellezza

Un teatro è spesso indicato come “tempio laico” della cultura di una comunità. Un tempio corrisponde normalmente alla necessità di una spiritualità che si organizza in modo selettivo, semplificando al massimo le funzioni che una architettura deve valorizzare: tassativamente quelle e non altre.
Nel passato si chiedeva agli architetti di esercitare al meglio la propria sapienza compositiva, artistica ed estetica, nella progettazione di edifici pubblici, civici o religiosi, o nelle residenze private. La chiesa del Redentore a Venezia, il Teatro Olimpico a Vicenza o una villa come la Rotonda erano sul piano formale edifici ben diversi proprio perché rispondevano a funzioni e finalità distinte, eppure era lo stesso Palladio ad averli disegnati.

Venuta meno quella netta distinzione tra spazio religioso e spazio civico (si pensi all’organizzazione duratura della città medioevale in cui i poteri contrapposti venivano espressi da due luoghi urbani ben distinti e le cui architetture presentavano caratteri completamente diversi), sottratta all’architettura religiosa quella sorta di primato formale che aveva, oggi stiamo addirittura procedendo verso una sorta di omologazione di valore ed estetica di tutte le funzioni pubbliche e collettive, siano essi aeroporti o centri commerciali, stadi o teatri, chiese o musei.
Paradossalmente oggi, nel mondo degli specialismi, si producono contenitori meno specifici, meno caratterizzati sul piano tipologico e formale, privilegiando l’immagine estetica che la firma dell’architetto di turno offre. Un esempio eloquente è legato al concorso per il teatro dell’Opéra Bastille, a Parigi: in fase di aggiudicazione del concorso, quando gli autori dei progetti erano ancora ignoti, venne scelto il progetto, poi realizzato, solo perché i consiglieri di Mitterrand pensavano di avere davanti gli elaborati grafici dello studio di Richard Meier, e un edificio firmato da lui avrebbe, sicuramente, costituito un valore per Parigi, indipendentemente dalle sue qualità intrinseche.
Di fronte alla critica incomunicabilità tra i mondi dell’architettura e delle arti sceniche, il seminario di Reggio Emilia ha costituito l’occasione di un incontro di diverse esperienze: l’insieme degli interventi e delle testimonianze presentate ha sottolineato una evidente eterogeneità dei linguaggi e dei saperi coinvolti nel tema.
Esperienze e riflessioni che vanno dalla critica dell’architettura alle problematiche della messa in scena, della composizione musicale, della coreografia, dell’interpretazione musicale e dell’attore, della scenografia, viste insieme e portate a discussione con le esperienze degli architetti, esperti di acustica, di direttori tecnici, di sovrintendenti e direttori di teatro, con il variegato e a volte indistinto mondo della committenza. Esperienze che vanno dai teatri progettati nel dopoguerra fino a edifici teatrali da poco inaugurati, ad altri ancora in costruzione e di prossima inaugurazione. Testimonianze comunicate in un unico contesto che ha portato a un dibattito, a volte acceso, in cui si è sviluppato un confronto affatto accademico sulle problematiche in campo. Questo volume presenta le riflessioni emerse nel corso dei tre seminari e in parte ne sviluppa i temi e le problematiche – con interventi e saggi di nuova elaborazione – in modo da fornire un quadro il più reale e ampio possibile.

Seminario Architettura e Teatro, 2004: Silvia Milesi, Antonio Calbi, Daniele Abbado, Carla Di Francesco, Mauro Meli, Mario Botta, Peter Stein
Teatro di Documenti Roma creato da Luciano Damiani
Renzo Piano, Prometeo di Luigi Nono, Chiesa di San Lorenzo, Venezia 1984

6. Il difficile compito dell’architetto. Il problema della committenza

Le dimensioni di un boccascena, le quote del palcoscenico e della platea, la disposizione del pubblico, richiedono decisioni che incideranno sulla qualità del lavoro e della comunicazione che si avrà all’interno dell’edificio teatrale. Sono parametri che svolgono un ruolo decisivo giocato su dimensioni e misure minime, spesso su dettagli. Una responsabilità altrettanto fondamentale la assumono i materiali delle strutture e dei rivestimenti. L’insieme di questi fattori determina il modo in cui il pubblico potrà ascoltare adeguatamente o meno il suono di un pianoforte, la voce di un attore, o un quartetto d’archi.

Maurizio Pollini, nella videointervista concessa per il Seminario, fa notare che “Se gli architetti fossero coscienti di quanto può migliorare il suono di un pianoforte spostando lo strumento anche di cinque centimetri, o anche soli due centimetri, sarebbero molto più responsabili – e gratificati – rispetto alla gioia o alla insoddisfazione che il loro lavoro determina”.
E’ evidente che nella figura dell’architetto convergono molti saperi e che egli debba responsabilmente coordinarli. Non vanno tralasciate, però, altre figure che dovrebbero condividere queste responsabilità. Di fatto risulta quasi sempre – in una costante che parrebbe tutta italiana – non esserci una chiarezza di ruoli, di compiti, all’origine del progetto. Che si commissioni un edificio teatrale per concorso o per incarico diretto, sovente si registra una “assenza” del committente; le specifiche funzionali e tecniche sono spesso insufficienti per vincolare la progettazione a un dato di realtà. Il tema è sfuggevole e poco indagato. Sfuggevole, perché in Italia la committenza è quasi sempre affidata all’istituzione pubblica, il cui ruolo è velato dai tempi e dai linguaggi della burocrazia.
Considerata la durata media delle realizzazioni delle opere pubbliche, anche i teatri e gli auditorium voluti da giunte comunali si ritrovano a essere completati o gestiti da altri soggetti, con ogni probabilità di opposto colore politico e con altri interessi. A volte la mancanza di finanziamenti, o la lievitazione inevitabile dei costi legati a un lungo protrarsi dei lavori, ha fatto sì che, quando si è potuto finalmente realizzare un progetto, fossero trascorsi talmente tanti anni da minarne l’integrità e la coerenza originarie.
La casistica è infinita e destinata purtroppo ad aumentare. Resta da dire, per sintetizzare il problema, che nei casi in cui la committenza – pubblica o privata – è parte attiva rispetto a “chi fa il progetto”, si riscontrano punte soddisfacenti di funzionamento e di rispondenza dell’edificio alle necessità. La figura del committente ha sempre svolto in architettura un ruolo decisivo: la riuscita o meno di un progetto spesso dipende proprio dal dialogo che il committente e il progettista riescono a instaurare, dialogo che deve rimanere attivo dalla fase dell’ideazione fino alla fine del cantiere.
Per essere chiari: è spesso l’insipienza del politico di turno a determinare in partenza una serie di scelte confuse e contraddittorie che preannunciano risultati frustranti, oltre a porre in una situazione di dannosa solitudine l’architetto progettista.
D’altra parte è impossibile non considerare altrettanto decisive nella committenza dell’edificio anche le figure artistiche destinatarie del progetto: committenti dell’edificio per le arti sceniche sono, e debbono essere, le arti sceniche stesse. Qui si aprono ulteriori problematiche alla progettazione dell’architetto, che spesso si trova di fronte a un panorama eterogeneo e connaturato in modo critico: le arti propriamente sceniche portano con sé, da almeno un secolo – certamente dalla nascita della figura del regista –, la propria autocritica. Hanno in qualche modo interiorizzato la propria criticità.
A partire da questi riferimenti, risulta evidente come il quadro che si presenta all’architetto-progettista sia ricco di fattori eterogenei, problematici e critici. L’elaborazione del progetto, oggi, non sopporta forme di neutralità, latitanza, superficialità: deve essere inevitabilmente un’assunzione di responsabilità e un’azione interpretativa forte.

Lluis Dilmè, Xavier Fabrè e Ignasi de Solà-Morales, Gran Teatre de Liceu,Barcellona, 1995-1999, sezione trasversale
Seminario Architettura e Teatro 2004, Marco De Michelis
Frank O. Gehry, Walt Disney Concert Hall, Los Angeles 1987 – 2003

7. Conclusioni

Le arti sceniche contemporanee si trovano in una situazione di costante instabilità del proprio statuto, ricercano volta per volta nuove soluzioni nella relazione con il presente e la storia. Dall’altra parte, anche nel campo dell’architettura si possono riscontrare momenti di forte emergenza autocritica, testimoniati ad esempio da Renzo Piano quando, con sottile ironia, afferma che ”almeno nei termini in cui è stato concepito finora, il mestiere dell’architetto è in via d’estinzione. Oggi non basta più aggiornare il catalogo dei mezzi espressivi o rinnovare il codice stilistico: è l’architetto che va ri-progettato”.

È tipico dell’arte il rifuggire da ipotesi troppo vincolanti sul proprio futuro. Questo ha portato negli ultimi decenni a richieste di sempre maggiore flessibilità, modularità dello spazio scenico, in definitiva a una richiesta di non invadenza, di leggerezza dell’elemento architettonico. La drammaturgia teatrale e musicale contemporanea manifesta sempre più spesso, già a partire dal momento compositivo, una propria congenita aspirazione a “farsi spazio”. C’è una drammaturgia dello spazio che non si limita più a ciò che avviene dietro la quarta parete, e questo spiega anche la sempre maggiore attrazione di teatro, danza e musica verso spazi non ortodossi.
Di fronte a questa situazione, la richiesta da fare all’architetto è di progettare edifici che rendano possibile, che aiutino, il lavoro di compositori, drammaturghi e registi. Serve, in altre parole, un’architettura consapevole e in grado di prefigurare un luogo in cui i quesiti drammaturgici, musicali e registici troveranno una risposta. Questo è il punto. Serve in ultima istanza che l’architetto avvicini, non solo in fase di elaborazione del progetto ma ben prima, le questioni relative alle arti sceniche contemporanee. In una parola, che torni a essere anche scenografo, musicista e regista, comprendendo che parallelamente le arti sceniche oggi tendono a ridisegnare lo spazio del teatro, modificandolo.
Questa pubblicazione vuol essere uno strumento che aiuti a comprendere che cosa è accaduto, ovvero dove e perché si è interrotto il “sapere progettuale” comune ai due mondi dell’Architettura e del Teatro, per individuarne i nodi critici e indicarne possibili soluzioni. In questo percorso è fondamentale dare ascolto alla voce dei professionisti che hanno affrontato questi problemi in prima persona, considerare le soluzioni adottate, le particolarità di ogni momento ed esempio critico. Per fare questo, è stato necessario “provocare” l’argomento, invitando a un tavolo comune – anche a rischio di incomprensioni, alzate di bandiera e scontri – linguaggi, competenze, poetiche e problematiche le più diverse. La progettazione di uno spazio teatrale, partendo dalle necessità del fare teatro, musica, danza, dalle necessità del sapere tecnico e della sua trasmissione, è una progettazione che deve poter attivare i saperi in modo inclusivo, farli reagire l’uno con l’altro per trovare quelle ragioni che plasmano la correttezza, e la bellezza, di un’architettura.

Seminario Architettura e Teatro 2004, Ian Mc Intosh, Frèderic Flamand, Virgilio Sieni, Jean-Guy Lecat
Lluis Dilmè, Xavier Fabrè e Ignasi de Solà-Morales, Gran Teatre de Liceu, Barcellona, 1995-1999, veduta dall’alto
Seminario Architettura e Teatro 2004, esterno del Teatro Cavallerizza

note e riferimenti

N 1 “Letterale” in quanto “esente da figure retoriche, da metafora, esagerazione, inesattezza, distorsione, o allusione.”

N 2 L’articolo 27 della legge regionale n.1 del 2000 sui servizi educativi per la prima infanzia.