3. Le forme teatrali e il ruolo dell’architetto
Un teatro non è mai per sempre. Un edificio teatrale esprime le necessità di una particolare pratica, di un pensiero che nasce e si formalizza in un determinato periodo storico. Verso la metà del Settecento, le decine di teatri attivi a Venezia – città-teatro per eccellenza, anche grazie alla sua particolare architettura – erano aperti durante tutta la giornata e ospitavano un mondo polimorfo, persone di diversa estrazione che si ritrovavano per parlare d’affari e di cultura, per mangiare e per giocare, per intrecciare rapporti sociali e relazioni amorose. Infine, in determinati orari, non solo serali, si apriva il sipario e quella multiforme società diventava il pubblico. Più o meno lo stesso sappiamo delle locande inglesi in cui è nato e si è affermato il teatro elisabettiano. Edifici diversissimi in cui si svolgevano forme simili di vita e che hanno prodotto altrettanto differenti modalità di teatro e di partecipazione.
La vita di una sala teatrale è una vita a suo modo fragile, che si cristallizza solamente quando una data forma o linguaggio si attesta nel tempo. E’ il caso dei teatri d’opera dell’Ottocento concepiti sullo schema della tradizione barocca, rivisto alla luce di una maggiore razionalizzazione degli elementi di distribuzione e soprattutto degli apparati tecnici. Il progetto del Piermarini per il Teatro alla Scala di Milano costituisce senza dubbio il paradigma di un tipo di sala, quello dedicato alla lirica, in cui la più ampia capienza possibile, con un vantaggio anche economico, veniva garantita da ordini di palchi sovrapposti e da un loggione superiore.
La situazione attuale presenta, in Italia, la tragedia di tanti teatri storici che sono stati mal ristrutturati – in particolare tra gli anni Sessanta e Ottanta – dove tecnici incompetenti, sordità o ingerenze politiche, marginalità degli artisti o loro disorientamento e altri fattori variabili hanno portato a veri e propri disastri; nei casi migliori – purtroppo una minoranza – a interventi filologicamente corretti, più spesso a degli ibridi che non favoriscono nessuna particolare forma di spettacolo dal vivo. Quasi sempre il consolidamento strutturale e la “messa a norma”, con il relativo adeguamento degli impianti, ha portato a una modificazione di senso dell’architettura originaria con un eccesso di materie e materiali, spesso usati in maniera impropria e banalmente di dubbio gusto, nel disprezzo per le necessità minime di funzionamento dell’ edificio. Per chi nel teatro lavora, l’impossibilità di un normale carico e scarico degli elementi scenotecnici, graticci impraticabili o scarsamente utilizzabili, palcoscenici non sbotolabili, cattiva o limitante accoglienza del pubblico, acustica e visibilità insufficienti, cabine di regia mal collocate e/o sottodotate, non rappresentano certo un dettaglio.
La casistica, soprattutto in Italia, è interminabile. Il prezzo lo hanno pagato in tanti e un esempio che vale per tutti è quello rappresentato dal Teatro dell’Arte, all’interno del Palazzo della Triennale di Milano progettata da Muzio negli anni Trenta, violato da un architetto e da giunte comunali irresponsabili tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Purtroppo gli stessi problemi si ritrovano, fatto apparentemente incomprensibile, anche nei teatri di nuova progettazione, realizzati dagli anni Settanta in avanti.
Per rimanere alla situazione italiana, edifici come la nuova sede del Piccolo Teatro di Milano, il Teatro Carlo Felice di Genova, il nuovo Auditorium di Roma, il Teatro delle Muse di Ancona, il nuovo teatro di Bolzano, il Teatro degli Arcimboldi di Milano, il Teatro Lirico di Cagliari, eccetera, presentano quasi tutta la gamma di problematiche fin qui segnalate – di cui la più frequente è il boccascena troppo a ridosso del muro di fondo del palcoscenico – con l’aggiunta di altri sintomi che molte architetture di oggi presentano, come l’uso di tecnologie “pesanti” e in alcuni casi dominanti (il recente palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo, ad esempio, ha il sottopalco bloccato da un mostro di ferro inutilizzabile), elementi distributivi illogici e eccessivamente lunghi (le distanze tra camerini e palcoscenico all’Auditorium di Roma, sono nell’ordine delle centinaia di metri, ma il record è del Carlo Felice di Genova in cui i camerini del coro erano stati originariamente pensati e quindi collocati al quattordicesimo piano, serviti peraltro da un numero inadeguato di ascensori: il risultato è stato per anni, ovviamente, il panico, quando non il vuoto di scena ), assenza di passaggi di servizio tra sala e palcoscenico, a volte difficoltà o mancanza di comunicazione tra gli spazi laterali del palcoscenico stesso, variazioni di senso che portano a nuove, illogiche forme (ad esempio il palcoscenico a pianta trapezoidale del nuovo teatro di Sassari), eccetera. E, in alcuni casi (Carlo Felice e le Muse), l’inserimento, nella sala, di architetture eterogenee, ideologiche o invasive rispetto al contesto teatrale: la platea come spazio urbano architettonico che entra nel teatro.
Pensiamo a quanti spettacoli sono stati bloccati dalla impossibilità di attivare la tecnologia di un palcoscenico, a quei teatri che hanno visto la propria sofisticata tecnologia andare in crisi al punto da dover essere chiusi, o di dover funzionare con gravi limitazioni.
Si possono attribuire tutte queste responsabilità a un’unica figura?
Tra i personaggi dominanti del panorama culturale compare con forza l’icona dell’architetto-star. Intellettuale, interprete della realtà, l’architetto è diventato, in questi ultimi decenni, una sorta di deus-ex-machina a cui affidare non solo i compiti che gli dovrebbero competere ma anche la responsabilità di suggellare, con un solo edificio stupefacente, a volte indubbiamente di qualità, ardite operazioni di marketing culturale e urbano – e questo è il caso, solo per citare gli esempi più noti, del Centre Pompideau a Parigi, del Guggenheim a Bilbao, del MART a Rovereto, del nuovo Auditorium a Roma. In Europa e in America la firma di un architetto famoso oggi può bastare a cambiare l’economia urbana di una città. Questo lo sanno bene gli amministratori di piccoli, medi e grandi centri che vogliono aumentare l’affluenza turistica cercando l’effetto “immagine” del nuovo monumento, museo, teatro, o centro culturale che sia. Alla difficile pratica della pianificazione e progettazione urbana si preferisce la città-collezione di oggetti firmati. La cultura architettonica sembra dunque spesso dimenticare quel sapere articolato, colto e utile che ha plasmato la città nei secoli per inseguire questioni di stile, di gusto e di mercato. Corollario di questa situazione è la riduzione frequente di una disciplina complessa, qual è l’architettura – che dovrebbe affrontare al contempo questioni legate, oltre che alla forma, alla funzione e alla tecnologia – alla principale dimensione linguistica. Così come la forma architettonica non deve derivare dalla sola funzione, allo stesso tempo gli aspetti legati al funzionamento, e quindi alla fisiologia e alla vitalità dell’edificio non possono essere liquidati come aspetti secondari della progettazione architettonica. Proviamo a immaginare un ospedale con il Pronto Soccorso al decimo piano: come minimo il progettista sarebbe accusato di irresponsabilità.
In Emilia-Romagna, regione considerata all’avanguardia per i suoi servizi per l’infanzia – e dove proprio il modello pedagogico reggiano continua a richiamare esperti ed è studiato in tutto il mondo – negli anni ’70 alcuni asili nido dovettero addirittura essere completamente ristrutturati, poco dopo essere stati inaugurati, perché risultati impraticabili per un lavoro educativo con i bambini. Oggi una legge (N 2) prevede testualmente che la progettazione di tali servizi si realizzi prendendo a riferimento anche il progetto pedagogico, dalle fasi iniziali della progettazione fino all’attivazione del servizio.
Ciò che dopo molti anni è stato stabilito per legge rappresenta l’evoluzione di un confronto importante, che la stessa Regione attivò, istituendo già a quel tempo Commissioni in cui progettisti, educatori e pedagogisti furono chiamati a lavorare insieme, per evitare gli errori prodotti inizialmente, certo per inesperienza, ma soprattutto per la mancanza di un dialogo tra chi aveva progettato quelle strutture e chi al loro interno doveva viverci e lavorare quotidianamente.
Gli effetti di quel confronto “orizzontale” , spesso aperto a livello locale anche ai genitori, hanno indubbiamente prodotto risultati importanti, consentendo di elaborare una cultura condivisa e più avanzata anche sul piano organizzativo ed economico.
Dobbiamo affermare che sarebbe indispensabile pensare a qualcosa di simile per gli edifici teatrali? Stabilire protocolli, chiarire quali siano i bisogni e le logiche che plasmano il lavoro delle arti sceniche, quali i vincoli funzionali e tecnici assolutamente da rispettare, quali le voci che necessitano di uno sforzo economico maggiore, come ridistribuire le risorse progettuali e economiche per produrre un edificio che esprima nella sua coerenza costitutiva la propria identità.
Il Seminario di Reggio Emilia non è stato che un primo passo, volto a fare incontrare esperienze fin qui separate, e a indagare le ragioni di tale diaspora. Il problema della relazione tra architettura e teatro va affrontato con urgenza se non vogliamo continuare a produrre danni. Dobbiamo essere inoltre politicamente consapevoli che i progetti dei teatri sono interventi significativi sia a livello di investimento di denaro pubblico, sia a livello simbolico, di identità cittadina e nazionale. Le implicazioni etiche del tema sembrano evidenti.