Teatro Verdiano

Nabucco

Da Nabucco a Falstaff

Verdi drammaturgo dei conflitti
Testo pubblicato su Rivista di Studi Verdiani n 27 anno 2017

In questo momento sul mio tavolo di lavoro si alternano due opere di Giuseppe Verdi, Nabucco e Falstaff, il terzo e l’ultimo titolo del suo catalogo. Partendo da questo occasionale accostamento vorrei mettere in luce alcuni contenuti del teatro musicale verdiano:  Verdi come autore in costante evoluzione, l’aspetto sperimentale della sua scrittura; Verdi come drammaturgo dei conflitti e autore costantemente “nel presente”.

Devo premettere che in generale diffido dei registi che parlano del proprio lavoro. Il regista parla attraverso ciò che riesce a realizzare sul palcoscenico, e in questo è parte di un processo complesso: si tratta di un procedere collettivo, di un processo di oggettivazione che parte da un testo che contiene una pluralità di possibilità interpretative tra cui, in prima istanza, le indicazioni e i pensieri dell’autore.

A cosa dobbiamo fare riferimento?  Mi sembra che da parte di Verdi ci sia un fermo invito alla brevità, alla rapidità, la richiesta di asciuttezza di linguaggio scenico e di nettezza nella definizione dei personaggi.  Lo studio, l’apprendimento, la comprensione delle opere di Giuseppe Verdi avvengono in misura importantissima sul palcoscenico, nella concretezza del lavoro teatrale. Verdi è un autore generoso con i suoi interpreti. Al direttore d’orchestra, al regista, agli interpreti è assegnato il compito di comprendere innanzitutto le ragioni della scrittura, l’intenzione che dà origine alla sintassi di ogni singola opera. Di avvicinarsi, di scavare i significati e di esprimersi nell’ assenza di compiacimento e nel rifiuto del  sentimentalismo.

Il catalogo verdiano è composto da testi estremamente diversi tra loro: quanto di più differente, come drammaturgia e linguaggio musicale, di Trovatore da Traviata, di Rigoletto da Trovatore -che pure comunemente vengono accomunate all’interno della cosiddetta trilogia popolare?

Questa multiformità non può essere compresa secondo una linea di sviluppo progressivo, o non solamente attraverso questo pensiero. Lo sviluppo, l’avanzare nelle opere di Verdi mi sembra di tipo conflittuale: quello di un autore portato al rinnovamento, alla sperimentazione, al rischio. Un autore in fuga dalle definizioni, come se ad ogni opera partisse da un intento unico.

Al tempo stesso è possibile individuare alcune tematiche costanti, topoi della drammaturgia verdiana.

Trovatore
Don Carlo
Traviata

Padri e figli. Le madri. La famiglia. Già in Nabucco si inaugura la galleria delle paternità infelici di cui Don Carlos sarà l’apoteosi. Ma dove sono finite le madri in Verdi? A parte Azucena in Trovatore, che non possiamo certo considerare  un buon modello o un paradigma, e Amelia nel Ballo in Maschera, sembra che le madri nelle opere di Verdi non compaiano se non in racconti di antefatti dolorosi e spesso ammantati di mistero (ad esempio la madre di Amelia nel Simone, quella di Gilda in Rigoletto) quando non raccapriccianti, vedi la madre di Azucena bruciata nel rogo.

Sembra che, nella maggior parte dei casi, delle madri il compositore voglia tacere -un buon esempio è la madre di Fenena e di Abigaille in Nabucco, di cui proprio non si parla.  Oppure, quando la figura è presente nel testo d’origine, la si può sempre eliminare –come succede con  la madre di Luisa in Kabale und Liebe di Schiller.

Se questa veloce ricostruzione è corretta, allora  la Alice del Falstaff segnerà una forte, sorprendente discontinuità .

Altro topos verdiano inaugurato da Nabucco è quello degli universi familiari generatori di conflitti drammatici e di relazioni affettive quasi sempre  catastrofiche. Il culmine lo offre ancora Don Carlos dove tutta la drammaturgia si sviluppa a partire da una catena di “paternità infelici” con al centro la figura di Filippo II, catena che coinvolge il figlio Don Carlos, il figlio sostitutivo Marchese di Posa, e dall’altra parte il “padre in autorità” Grande Inquisitore, fino all’invenzione del fantasma di Carlo V, sorta di padre archetipico quindi insuperabile.

Lungo il suo lungo percorso, Verdi si confronta con le figure e i valori tipici del melodramma romantico: la figura dell’eroe, le istituzioni del potere, secolare e religioso, le Leggi che regolano i conflitti; e lungo la sua azione di potente modernizzazione del melodramma finisce per smontarli quasi tutti. La figura dell’eroe tende a naufragare mentre la Legge progressivamente si laicizza dando spazio ad una vera e propria crisi interiore: i personaggi  vengono messi  di fronte al proprio essere e al proprio sentire umano, spesso fatto di rancori, gelosie anche atroci (Fiesco, Filippo),  vendette. I personaggi legati al culto, i suoi ministri (Grande Inquisitore, Ramfis) diventano figure totalmente negative, la stessa figura di Dio diviene una presenza teatralmente ininfluente.

Lungo questo percorso nel teatro verdiano viene in primo piano il conflitto fondamentale, quello  tra autorità e libertà, con forti connotati pessimistici.

Forse il punto di non ritorno viene raggiunto proprio in Don Carlos, opera in cui assistiamo alla totale frustrazione dei due protagonisti in gioco, Filippo e Carlos. Impossibilità e fallimento  di qualsiasi eroismo, Posa ucciso come un animale in gabbia, il popolo totalmente succube.

Verdi opera nel tempo una serie impressionante di trasformazioni, profonde e necessarie al suo teatro. I suoi personaggi sono sempre più complessi e ambigui ed gli riesce a mostrarcene, in modo sempre più drammatico, l’incoerenza morale.  Se esisteva, prima di Verdi, una legge dell’unità morale dei personaggi dell’opera lirica,  necessaria al bisogno di semplicità e immediatezza delle forme melodrammatiche, questa ne esce completamente stravolta e riportata al senso che l’autore coglie nel suo presente storico, quindi potentemente modernizzata.

Nabucco
Falstaff
Nabucco

Nabucco e Falstaff. In Nabucco si esprime con violenza il moralismo di un giovane uomo e di un giovane compositore mentre all’opposto in Falstaff viviamo l’esperienza della totale raffinatezza nell’invenzione musicale della parola, l’espressione della gioia di vivere assoluta, di una felicità di stampo mozartiano.  Una differenza totale nel suono, nel “gesto”.

Già nella scrittura di Nabucco Verdi manifesta la propria identità di autore autenticamente tragico e uno dei suoi temi privilegiati è la violenza insita nel genere umano. Nabucco parla delle grandi origini, del confronto dell’ uomo con Dio, di un popolo con il suo progetto di riscatto, di un popolo di fronte al tema della propria identità. E tutto questo viene fatto al presente: il modo in cui Verdi compone quest’opera è sempre riferito ad una radice autenticamente  popolare, nelle situazioni e nella loro narrazione musicale e scenica: Nabucco è la storia che il coro-popolo sta raccontando.

Il motore drammaturgico di quest’opera mi sembra risiedere nel suo significato politico spirituale, la vera ispirazione di Verdi qui è la sua utopia: la liberazione di un popolo oppresso, la libertà come bene indispensabile a una collettività.

L’opera inizia con una scena fortissima di terrore e di invocazione a Dio. Nabucco è il “Ministro dell’ira del Nume sdegnato.”

Nel progetto realizzato al Teatro alla Scala nel 2013, che ora mi appresto a riallestire,  partiamo dalla fuga degli ebrei da una paura antichissima, che risiede nella psiche: il timore di un Dio aggressivo, il senso di colpa: ”Peccammo!”.

Per queste ragioni, la scelta compiuta è stata radicale: il nemico del popolo in scena è del tutto interiore. E’ il nemico che si affaccia alla memoria. Non ci sono gli Assiri, non mi sembra più pensabile di vedere in scena i finti Assiri, con le loro finte barbe. Non sarebbe nemmeno più una “cattiva finzione”. Sarebbe, come da ultimo diceva Luca Ronconi,  “un imbroglio”.

Il tutto avviene in un luogo sacro, luogo della memoria per eccellenza: un cimitero. Luogo consacrato alla morte, luogo che assume il compito di proteggere i viventi, le vittime.

In Nabucco la drammaturgia ruota continuamente intorno alla minaccia della eliminazione del popolo ebraico, inclusa addirittura la sconfitta del suo Dio.  L’opera ci parla della liberazione di un popolo oppresso. Gli ebrei in esilio valgono come paradigma dei popoli esiliati.

Il personaggio di Nabucco è necessario : accende tutto questo, lo origina, lo subisce, lo attraversa, infine lo compie.

Ci troviamo di fronte un testo segnato da una forte spiritualità, che si esprime nelle grida di minacce, invettive, follia, crolli, terrore, in sogni, profezie, per approdare a momenti di invocazione e di preghiera. Fino alla preghiera e alla riconciliazione finale. Un testo teatrale ben strano…

Verdi arriverà a una straordinaria evoluzione nella scrittura dei caratteri umani, qui però sembra volersi tenere bene ancorato a caratteri di natura primordiale, univoci e veementi.

In questo mi sembra risiedere gran parte della novità ed esemplarità di quest’opera.

Nabucco
Nabucco
Nabucco

Deserto – e interventi soprannaturali:  nello spettacolo, dopo la scena iniziale, con la distruzione del luogo sacro, la vicenda si trasferisce in un deserto, inteso come luogo dell’esilio e della perdita di riferimenti concreti. Luogo simbolico e non-luogo al tempo stesso.  Luogo dell’esilio e della punizione, ma anche luogo della spiritualità. E, nel caso di Nabucco, delle profezie.

Tale contesto produce gli accadimenti soprannaturali :  il fulmine che colpisce Nabucco rendendolo demente alla fine del secondo atto, il crollo della statua di Belo nel finale.

Il deserto è la forma della verità di questa storia intrisa di profezie, il luogo che la contiene. Qui, nel deserto, nasce quello che è il vero centro dell’opera, “Va’ pensiero”. In questo spettacolo il Coro si raccoglie come fosse un unico corpo, un unico sentire, oltre che un’unica voce.  Sintesi di Nabucco e “nascita” di Giuseppe Verdi. Uno dei momenti della nascita di un possibile immaginario collettivo. Essere, sentire di essere di un popolo.

Ho accennato all’inizio a un teatro dei conflitti, dove il conflitto principale sembra risiedere nella contrapposizione tra l’individuo, la legge e la realtà: queste forze in campo sono quasi sempre irriconciliabili e spinte ad un scontro perso in partenza.

In questo teatro dell’eccesso Verdi non nega e non nasconde l’approdo tragico del destino umano. Spesso i suoi personaggi hanno una tale ansia di scoprire il proprio destino che forzano in tutti modi il proprio percorso esistenziale (tra i tanti, Macbeth e Otello), con esiti inevitabilmente tragici. Anche per questo motivo l’irruzione finale di Sir John Falstaff ha dello sbalorditivo..

Va considerato che Verdi non giudica mai i suoi personaggi dall’esterno, anzi sembra immergersi completamente nelle dinamiche delle loro passioni e questa posizione determina il particolare carattere che assumono le passioni umane nel suo teatro: è un carattere eccessivo e ineluttabile, che esclude i compromessi e coerentemente ci mostra una impressionante serie di sconfitte.

E qui entra in campo Falstaff, l’uomo senza la paura di fare brutta figura, l’uomo di portata morale superiore, superiore a qualsiasi morale corrente. L’uomo che non teme le sconfitte.

Falstaff, che alla fine si fa burla della morte: l’ultimo saluto, la sconfitta di tutti, l’ultima risata. La liberazione.

Il Falstaff di Verdi va oltre il conflitto originario tra autorità e libertà, se ne è totalmente liberato -e il monologo sull’onore è li a confermarcelo.

A questo Falstaff Verdi e Boito evitano la straziante scena dell’incontro con il giovane Re e la successiva morte di crepacuore, quasi che il Falstaff dell’ Enrico IV parlasse della crudezza della Storia, mentre il “nostro” Sir John ha stretto un patto invincibile con il Teatro. Teatro che qui funziona decisamente come realtà superiore.

Falstaff
Falstaff

Lungo tutto il suo percorso Verdi ossessionato dal tema della libertà. Falstaff è, nel percorso di Verdi, l’ultima mossa: lo scacco alla tristezza, lo scacco alla sconfitta. La mossa lungamente attesa. È l’incontro con Boito a riportare il compositore, ormai ultrasettantenne, all’antico desiderio di comporre un’opera comica -o meglio come dirà poi lui stesso “una commedia lirica che non somiglia a nessun altra”.

Boito usa gli argomenti più convincenti – “Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano, finire con uno scoppio immenso d’ilarità! C’è da far strabigliare!” – e sembra che Verdi sia ben felice di seguirlo. E in effetti c’è proprio da strabigliare..

Mi sembra che Verdi incontri in Boito quel fratello minore che non ha mai avuto; sperimentata la collaborazione in Simone e Otello, Verdi raggiunge con Boito un livello di fiducia e corrispondenza umana che si trasferiscono nella scrittura di Falstaff portandovi grande divertimento e la confidenza indispensabile allo scherzo.

Verdi stesso parla del personaggio di Falstaff nei termini di una presenza quasi fisica, che invade la sua vita. Falstaff è la personificazione di una miracolosa, sottile intelligenza, quella che Sir John stesso chiama “arguzia”.  Arguzia da cui Verdi si sente come contaminato. E’ un incontro ricco e felice per Verdi, miracoloso, l’incontro con “la vera virilità” del mondo… “tutte le donne ammutinate insieme si dannano per me!”, decisa premessa  allo scatenamento dionisiaco che Falstaff vorrebbe come finale “Squartatemi come un camoscio a mensa!! Sbranatemi!!!”, per concludere con un sontuoso e non scontato “Io t’amo! “.

 

Di Falstaff vorrei mettere in luce alcuni aspetti mutuati dalla pratica del lavoro in palcoscenico che mi sembrano indispensabili nella realizzazione scenica di quest’opera. In particolare riguardo al personaggio di Alice.

Se nel mettere in scena Falstaff abbiamo un regista o una Alice che pensano ad un personaggio borghese, abbiamo perso prima di iniziare: Alice è il personaggio con cui Sir John ha le più grandi affinità. Il personaggio di Alice deve essere capace di un sentire aperto, totale, c’è piena comunicazione tra Alice e Falstaff, c’è fascinazione. C’è erotismo. Allo stesso modo è  indispensabile che il personaggio di Alice sia capace di comicità, che sia la vera scaturigine della “risata sonora” che tutto invade e tutto vince.  La risata come punto più alto, anche nella descrizione della stessa Alice; c’è un punto in cui si stabilisce la fascinazione:

“e un giorno come passar mi vide ne’ suoi paraggi, rise.” Una risata! (invenzione di Boito)

Falstaff  è un’ opera meravigliosa, grazie alla parola scintillante, all’invenzione continua, alla risata sorprendente e salvifica. Come sottolineava Verdi, Falstaff richiede da parte degli interpreti altrettanta precisione: nelle intenzioni, nei pensieri, nello stare in scena, nella precisione delle immagini e dei significati. La precisione richiesta da Verdi stesso nella dizione di una lingua meravigliosamente consonantica.

Falstaff
Falstaff

Su Alice si gioca tutto, è il personaggio su cui bisogna accettare la scommessa. In questo sta tutta la differenza: la differenza tra una commedia piena di libertà, capace di continue invenzioni poetiche, e una commedia borghese in cui i personaggi saranno inevitabilmente “ripuliti” e dell’erotismo ci sarà solamente un’ombra lontana. Se non ci fosse una carica erotica e passionale all’interno della scena delle donne al primo atto – “E il viso tuo su me risplenderà. Come una stella sull’immensità.” – non ci sarebbe Falstaff.

O meglio, avremmo un Falstaff “addomesticato”. Un mezzo imbroglio: c’è qualcosa di selvatico, di sfrontatamente libero nel personaggio di Falstaff che sarebbe un delitto cancellare. Si perderebbe troppo.

Il Falstaff di Verdi stà in questa unione particolarissima di sensualità e di riso.

Un segnale macroscopico, la bellissima frase di Falstaff all’inizio della scena in casa di Alice: ”Ed or potrò morir felice. Avrò vissuto molto dopo quest’ora di beato amore.” C’è anche una dose di fiducia, confidenza, empatia indispensabile ad iniziare così un incontro. C’è emozione, e non quella di chi sta pensando ai piaceri della tavola.

Queste decisioni, queste scelte nel mettere in scena le opere di Verdi comportano responsabilità che sono solamente in minima parte di ordine estetico.

Rigoletto
Rigoletto

Nel caso di Falstaff  non è lontano da quello che si deve affrontare mettendo in scena Rigoletto. Rigoletto nasce drammaturgicamente per spingere il grottesco verso una funzione drammatica – il personaggio di Rigoletto racchiude in sé sia il comico che il tragico, questa l’ambizione di Verdi. Cosa farcene di Rigoletto se l’aspetto comico non viene preso in considerazione? E’ evidente che la carica fortemente innovativa di quest’opera ne verrebbe diminuita.

Dove finirebbe il “turbamento morale” che interessava a Verdi e che nasceva dallo spettacolo del bene e del male intrecciati tra di loro e non personificati allo stato puro in figure contrapposte? Questo doveva urtare le coscienze: oltre al personaggio di Rigoletto, il fatto che la ragazza sedotta potesse avere pietà del seduttore e il fatto che un farabutto, il Duca al secondo atto, potesse avere nostalgia dell’onestà.

La responsabilità di chi mette in scena Rigoletto va rivolta al fatto che oggi tutto questo rischia di non arrivare,  di produrre il deforme, il grottesco, l’impudico, il morboso, il pulp, il moralmente corrotto, solamente come puro spettacolo.

Rigoletto è personaggio ambiguo e pieno di contraddizioni; è contemporaneamente il Matto e il Re, un provocatore e un giustiziere fallito, un padre innamorato e un padre che produce sciagure.

C’è evidentemente una forte proiezione identificativa di Verdi con il suo personaggio sia per quanto concerne il modo di sentire la paternità come difesa fallimentare dell’integrità dei propri figli, sia per quanto riguarda la figura del buffone/saltimbanco cui Verdi fa riferimento in diverse occasioni.

Rigoletto è, in parte, consapevole della sua ambiguità, in qualche modo “recita” la sua deformità fisica. Ancora una volta siamo di fronte al ricorso al Teatro come strumento della verità.

C’è una passione di Rigoletto per l’esagerazione, ma questo personaggio non è parente di Elephant man – come sempre più spesso invece viene proposto. La sua deformità è invece principalmente interiore, e Rigoletto la supera arrivando a momenti di forza virile, quasi di autorevolezza.

Rigoletto è un’opera di segreti e apparizioni nascoste; anche il pensiero dei personaggi è nascosto, o poco comprensibile al personaggio stesso e per questo va dichiarato al pubblico e a sè stessi.

Il modo è quello dell’ enunciazione, il risultato è una “prosa musicale” nuova e sorprendente -e tutto questo parlato è in netto contrasto con la vocazione del Duca al canto e alla ricerca di una liricità facile.

Da qui l’intuizione di Luciano Berio su Rigoletto come “una delle più clamorose anticipazioni dello straniamento brechtiano”: c’è un particolare senso critico dei personaggi verso se stessi, le proprie passioni, la propria vicenda. Il motore delle varie situazioni è il non-detto, ciò che non si conosce o non si vuole far conoscere, il pensiero nascosto che deve farsi enunciazione.

Tutta questa ricchezza, questa varietà di aspetti psicologici, si regge su una contraddizione fondamentale, originaria, che è lo stesso Rigoletto ad enunciare: il pianto a Rigoletto è proibito, Rigoletto è altro, : “L’uomo son io che ride!”  Appunto, di nuovo la risata.

E, di nuovo, la superiore  metafora del Teatro.

Non è banale ricordare che Victor Hugo, oltre che padre di Tribolet è anche autore de “L’uomo che ride” da cui, per filiazione cinematografica, discendono sia il personaggio che il trucco di Joker.

Vale la pena soffermarsi un attimo sul tema del riso: la risata di Rigoletto e quella di Falstaff, così diverse: il riso cinico, maligno, di Rigoletto, la risata felice di Sir John.

Rigoletto
Falstaff

Verdi ci da una indicazione forte da seguire, sarebbe un peccato abbandonarla: anche per Rigoletto, in ballo non c’è una questione meramente estetica. La festa del primo atto di Rigoletto è una festa piena di cattiveria, frasi e risate lanciate nella danza, e non una festa generica, finta come si vede solamente su certi palcoscenici.

La sintassi di quest’opera pone problematiche umane spigolose: proprio perché la vicenda è ammantata di mistero per i personaggi stessi, le situazioni vanno esposte, teatralizzate -ad esempio l’ intero terzo atto. Con Gilda, anche lo spettatore è chiamato a essere testimone, come fosse obbligato ad osservare quanto accade nella locanda di Sparafucile.

Verdi si pone come autore di una drammaturgia “alta”: i personaggi di Rigoletto non sanno, o non vogliono sapere, o non possono sapere (Gilda) o pretendono che gli altri non sappiano (Rigoletto verso tutti, non solo con Gilda) o sanno solo parzialmente (il Coro). Anche il Duca non sa, ma semplicemente non è interessato, oppure sa già quanto gli basta.

A parte i dati concreti, i pezzi mancanti della vicenda, ciò che i personaggi non conoscono, o conoscono in modo deformato e ambiguo, è proprio la psicologia dell’animo umano.

Verdi sembra dirci che l’essere umano è fatto così, non sa perdonare ed è destinato a perseverare nel suo essere. C’è questa imperfezione ontologica. Non c’è evoluzione, non c’è mediazione, non c’è rapporto dialettico tra realtà contradditorie.

La mozartiana conciliazione dei contrari, o la redenzione, sono estranee alla drammaturgia di Verdi: ogni personaggio deve percorrere il suo cammino fino in fondo. In alcuni casi, avvicinandosi alla fine di una vicenda,  i personaggi di Verdi arrivano alla comprensione della propria storia, spesso subendo una lezione altamente tragica.

Proprio in questo consiste lo scarto di Falstaff. Il pensiero è lo stesso, l’uomo è lo stesso, ma Verdi opera una vera rivoluzione: entra in una dimensione superiore, in cui l’immaginario può nobilitare l’uomo.

Oggi, per noi, Falstaff rappresenta l’opposto del nostro mondo segnato dall’ansia, dalla paura della libertà. Falstaff combatte anzitutto per la libertà – e ovviamente per come la intende lui, da maestro di vita.

Non si può togliere a Falstaff il piacere della compagnia e dello scherzo, del vino, del racconto, della parola. Ma a ben guardare, ancora più importante della gag, dell’azione gaglioffa, è la possibilità di raccontarne e di riderne. Un piacere successivo, più elevato.

Aveva ben capito Andrew Bradley: noi non ridiamo di Falstaff, noi ridiamo con lui.  Oltre: nessuno più di Falstaff è portato a ridere di sé stesso, di quello che gli succede. E’ lui il primo a farlo, e generosamente ci precede.

Falstaff è prima di tutto un uomo di spirito con finalità esistenziali libertarie, desideroso di affermare – e condividere – un proprio stile di vita basato sul divertimento, un divertimento che ha senso solo se affermato da esseri umani liberi da pregiudizi e da eccessive regole.

Quando pensiamo ai divertimenti cui Falstaff ci introduce, sarebbe sensato abolire la figura e il mondo di un crapulone, bulimico e “alcoolimico”. Se Sir John fosse ridotto a questo saremmo un’altra volta in un imbroglio. Falstaff, al contrario, sembra narrare una storia in cui il vino e il cibo sono importanti ma non sono lo scopo: lo scopo è il divertimento, il divertire nel raccontare –e questo è chiarissimo in Enrico IV, nell’episodio del furto e della fuga al secondo atto – la raffinatezza nel racconto e nella presa in giro, nelle immagini che il racconto produce.

Esiste un altro personaggio nella storia del teatro musicale altrettanto capace e ricco di autoironia? L’autoironia è segno di consapevolezza, e questa consapevolezza è totalmente assorbita – e non esibita – nel personaggio e in generale nel testo.

Perché altrimenti questa galleria di Creso, Menelao, Atteone, Mercurio, Pandaro, Giove, Europa,  se non a testimonianza della presenza delle tematiche classiche della commedia – tradimento e gelosia in testa?  Come se Falstaff, e con lui Bardolfo, Pistola e Quickly, cioè i personaggi comici, ci dicessero: c’è una lunga e grande tradizione dietro di noi, e noi la stiamo, in questo momento, reinventando.

Quale migliore conclusione del percorso di Giuseppe Verdi? Rimango sempre un po’ stupito quando il significato di Falstaff viene spinto principalmente sull’aspetto decadente, sulle avvisaglie della morte. Questo è vero per una scena, peraltro bellissima, l’arrivo di Sir John nel bosco, la campana della mezzanotte. E’ una scena di turbamento e di paura, da cui Falstaff si riprende quasi subito, e il fatto che il personaggio sia capace di un tale sentire lo arricchisce e lo umanizza.  Ma tutto il testo sottintende e mette in commedia argomenti seri, e questo mi sembra aggiungere valore alla libertà dello scherzo e all’invenzione.

Falstaff
Falstaff
Falstaff

E, con Falstaff,  arriva a una conclusione anche il tema della famiglia. Quantomeno, con il personaggio di Alice Verdi ci consegna la figura di una madre, una madre accudente verso la propria figlia. Grazie ad Alice assistiamo alla rapida, decisa, allegra e collettiva risoluzione della grande ingiustizia: Ford vorrebbe sposare la propria giovane figlia Nannetta al dott. Cajus. Un padre indegno, e indegno in modo futile. Ma giustamente, a parte o grazie al personaggio di Falstaff, stiamo parlando di una commedia con un forte protagonismo femminile. (Ford è anche un marito indegno ma i conti dovrà farli successivamente con una Alice vittoriosa).

Dicevamo Alice: ecco finalmente in un’opera di Giuseppe Verdi il personaggio di una madre, una madre senza tragedie. Altro approdo finale.

Lungo tutto lo svolgersi di Falstaff, e anche nel finale dell’opera, possiamo sentire una qualità di scrittura particolare, come se Verdi nella composizione di quest’opera fosse mosso dall’ euforia. Un sentire rarissimo.  Possiamo immaginare Verdi nell’atto di musicare le azioni, ogni battuta sembra generare teatro. Ma ancora di più possiamo sentire questa superiore qualità nella scrittura dei concertati, dove l’invenzione è di raffinatezza irraggiungibile.

Quando mai, dopo Mozart, l’euforia si è sposata con la saggezza e con la maestria?

Sono casi rarissimi, autentici stati di grazia. In questo caso, grazie all’incontro di Giuseppe Verdi, e di Boito, con Falstaff e con William Shakespeare.

“Grande tra gli uomini e di grande terrore è la potenza del riso:
contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte.
Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo,
poco altrimenti di chi è preparato a morire.”
Leopardi, Pensieri LXXVIII

Ho volutamente evitato di appesantire questo scritto con citazioni e riferimenti testuali. Mi sembra quindi corretto ricordare alcuni autori i cui lavori ho sicuramente assorbito in questi anni, in particolare gli scritti di Gilles De Van e Peter Brooks.